Archiviazione in sede penale: effetti limitati nel giudizio tributario
Non pregiudica la misura che amplia i termini dell’accertamento in presenza di una violazione fiscale che imponga l’obbligo di denuncia, né i poteri impositivi dell’Ufficio
Roma – La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 28831 del 19/10/2021, si è pronunciata sugli effetti prodotti dal decreto di archiviazione intervenuto in sede di procedimento penale nell’ambito del giudizio tributario relativo ai medesimi fatti. La Suprema corte ha osservato come la pronuncia del decreto di archiviazione non incida sulla disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento né precluda, per sé sola, una diversa valutazione dei fatti da parte del giudice tributario.
La fase di merito
Con distinti avvisi di accertamento, emessi per due differenti periodi d’imposta, l’Agenzia delle entrate ha contestato a una società l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti e, stante la ritenuta conoscenza o conoscibilità della natura fittizia delle operazioni, l’illegittima detrazione della correlata imposta sul valore aggiunto.
A seguito dell’impugnazione da parte della società accertata, i giudici di merito hanno però disatteso le ragioni dell’Ufficio e annullato gli atti impositivi. La sentenza della Commissione tributaria regionale, in particolare, ha ritenuto che il decreto di archiviazione pronunciato in sede penale nei confronti del legale rappresentante della società, da una parte, avesse fatto venire meno il presupposto per il raddoppio dei termini per l’accertamento e quindi determinato la decadenza del potere impositivo dell’Ufficio e, dall’altra, dimostrasse l’estraneità della società dalla condotta fraudolenta.
Il giudizio di legittimità
Il ricorso per cassazione, presentato dall’amministrazione finanziaria, ha trovato accoglimento innanzi alla Suprema corte in relazione a entrambi i citati punti della sentenza di secondo grado.
In materia di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell’Iva, l’articolo 43, comma 3 del Dpr n. 600/1973 e l’articolo 57, comma 3 del Dpr n. 633/1972 – prima modificati in senso restrittivo dal Dlgs n. 128/2015, prevedendo la non operatività del raddoppio in caso di denuncia presentata o trasmessa dall’Amministrazione finanziaria oltre la scadenza ordinaria dei termini, e poi definitivamente abrogati dalla legge n. 208/2015 – nelle versioni applicabili alla controversia in oggetto prevedevano, «in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74», il raddoppio degli ordinari termini previsti a pena di decadenza per la notifica degli avvisi di accertamento.
Pur oggetto di numerose controversie in sede processuale, l’interpretazione delle disposizioni in commento ha da tempo trovato un consolidato orientamento ermeneutico, nel solco della sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 25 luglio 2011.
Nel caso in esame la Corte di cassazione, accogliendo le censure dell’Ufficio alla sentenza di secondo grado, ha ripercorso i profili interpretativi rilevanti in sede di giudizio, ricordando anzitutto come il raddoppio dei termini per l’accertamento «presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale». L’operatività di tale disciplina, si è dunque osservato, non solo è indipendente «dall’effettiva presentazione della [denuncia], dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo», ma neppure è esclusa «dalla configurabilità di una causa di estinzione del reato come la prescrizione, né dalla intervenuta archiviazione della denuncia».
Pertanto, come osservato dalla Corte, la mera conclusione del procedimento penale con un decreto di archiviazione non elide il presupposto del raddoppio dei termini, in quanto questo scaturisce esclusivamente dalla «presenza di seri indizi di reato che facciano sorgere l’obbligo di presentazione di denuncia» ai sensi dell’articolo 331 c p p; mentre la sussistenza di tali seri indizi potrà essere oggetto di valutazione da parte del giudice tributario «compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta «prognosi postuma») circa la loro ricorrenza», fermo restando che il relativo tema di prova dovrà essere «circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda[re] l’accertamento del reato».
Anche nel merito della vicenda processuale, ovvero in relazione al recupero dell’Iva illegittimamente detratta in quanto afferente a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, la sentenza della Ctr è risultata viziata.
Nei casi di contestazione della simulazione soggettiva dell’operazione, l’amministrazione finanziaria ha l’onere di provare: a) la «oggettiva fittizietà del fornitore»; b) «anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente». Assolto detto onere istruttorio, incombe sul contribuente l’onere della prova contraria, ovvero di avere adoperato nella scelta del contraente «la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto».
Il giudice di secondo grado, tuttavia, «senza tenere in alcun conto gli elementi presuntivi specificamente dedotti nell’avviso di accertamento», ha sollevato il contribuente dalla dimostrazione della propria buona fede, ritenendo che il sopravvenuto decreto di archiviazione – emesso nel procedimento penale a carico del legale rappresentante della società utilizzatrice delle fatture fittizie – fosse per sé solo sufficiente a dimostrare la sua estraneità all’accordo simulatorio.
Tuttavia, la Corte di cassazione ha osservato come il decreto di archiviazione – che presuppone «la mancanza di un processo» e che «non dà luogo a preclusioni di alcun genere», compresa l’eventuale riapertura delle indagini nei confronti dello stesso soggetto ai sensi dell’articolo 414 del cpp – «non impedisce che lo stesso fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dal giudice» e, lungi dal determinare un’automatica esimente in sede tributaria, rappresenti «un mero indizio», sottoposto al suo libero apprezzamento insieme a tutti gli altri elementi di prova prodotti dalle parti processuali.
In definitiva, in relazione a entrambe le questioni trattate, la Corte di cassazione ha censurato l’operato del giudice di merito che, avendo attribuito una valenza esorbitante al decreto di archiviazione, ha disatteso i consolidati principi ermeneutici afferenti al regime del doppio binario tra giudizio penale e procedimento/processo tributario.