L’assoluzione nel processo penale ritenuta irrilevante nel dibattito tributario
Roma – Non assume valenza probatoria, nel processo tributario, l’assoluzione, avvenuta in sede penale, dal reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2 del Dlgs n. 74/2000). È quanto ha affermato, con la decisione n. 702 del 5 settembre 2023, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado delle Marche, respingendo un appello proposto da una società.
Nel caso in esame, il legale rappresentante della società era stato assolto nel processo penale dal reato ascrittogli, per mera insufficienza di prova, in quanto le dichiarazioni accusatorie nei confronti dello stesso, rese ai sensi dell’articolo 192 del codice di procedura penale, in mancanza di un loro riscontro in sede dibattimentale, non venivano ritenute sufficienti ai fini della condanna penale. Secondo i giudici marchigiani, però, nel processo tributario, le stesse dichiarazioni accusatorie possono validamente assumere, unitamente ad altri indizi, una diversa valenza probatoria, integrando una prova sufficiente alla condanna fiscale della contribuente.
Il caso, il primo ricorso e l’appello
L’Agenzia delle entrate emetteva, nei confronti di una società, in persona del legale rappresentante, un avviso d’accertamento, con il quale contestava ritenute d’acconto non versate e indebite deduzioni fiscali legate a costi fittizi, derivanti dall’utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
Impugnato l’atto impositivo dinanzi la competente Commissione tributaria di primo grado di Ancona con apposito ricorso, questo veniva respinto dai giudici marchigiani, che confermavano il corretto operato del Fisco.
La decisione dei giudici di merito veniva, quindi, impugnata in secondo grado dalla società sulla considerazione che, nel frattempo, era intervenuta, a favore del legale rappresentante dell’impresa, una sentenza penale di assoluzione, per insufficienza di prova, dall’ipotesi di accusa accusatoria di cui all’articolo 2 del Dlgs n. 74/2000.
In merito, si ricorda come la norma ora citata prevede la pena della reclusione per chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indichi in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi.
La contribuente asseriva, dunque, che la motivazione della sentenza dei giudici tributari di primo grado di Ancona era affetta da un vizio logico giuridico, in quanto si basava esclusivamente sul semplice richiamo per relationem ad altre sentenze della Commissione tributaria provinciale, che avevano confermato gli avvisi di accertamento inerenti alle contestate sottrazioni a imposizione di ricavi non dichiarati da parte della società appellante e che erano cronologicamente antecedenti alla predetta sentenza di assoluzione del rappresentante legale, intervenuta nel processo penale.
A giudizio della società, infatti, non è possibile non tenere in debito conto tale sentenza di assoluzione intervenuta in sede penale, la quale dimostrerebbe l’inesistenza degli addebiti avanzati dall’amministrazione finanziaria con il proprio atto accertativo.
L’ufficio si costituiva nel giudizio di secondo grado, affermando che il legale rappresentante delle società ritenute fittizie dal Fisco, attraverso le quali la contribuente aveva posto in essere le operazioni fraudolente, aveva reso all’autorità giudiziaria dichiarazioni auto ed etero accusatorie, nel corso delle quali aveva ammesso che tutte le fatture emesse da tali società erano sostanzialmente fatture per operazioni inesistenti. E tali dichiarazioni, che non erano state contestate dall’appellante, vanno ritenute affidabili in quanto precise e sufficienti per ritenere dimostrato nel processo tributario l’ipotesi di evasione fiscale. Le stesse dichiarazioni erano state, per di più, riscontrate dalla Polizia giudiziaria che aveva accertato l’effettiva inesistenza delle due società riconducibili all’autore delle dichiarazioni stesse.
Inoltre, l’Amministrazione finanziaria ha ricordato come dall’esame della contabilità e dalle indagini bancarie, nei confronti delle società coinvolte, veniva riscontrato il metodico prelievo di denaro in concomitanza del pagamento di fatture da parte della clientela, trovando così riscontro fattuale sul funzionamento del meccanismo fraudolento di evasione tributaria. Tale circostanza era inoltre cristallizzata, da pubblici ufficiali, in un processo verbale di constatazione che, ricordiamo, ha valenza di prova legale ai sensi dell’articolo 2700 cc, fino a querela di falso in ordine all’espletamento delle operazioni di verifica poste in essere dalla Guardia di finanza.
Infine, a giudizio dell’Amministrazione, il giudicato penale di assoluzione dal reato non spiega effetto, ai sensi dell’articolo 654 del codice di procedura penale, nel processo tributario, dove rilevano anche le presunzioni semplici che, invece, non possiedono alcun valore probatorio nel processo penale.
La decisione d’appello
Chiamati a pronunciarsi definitivamente nel merito della questione, i giudici tributari marchigiani hanno dato ragione al Fisco, respingendo l’appello della contribuente, ritenendolo infondato.
Il processo verbale di constatazione, nel quale si dava atto della natura di società fittizie delle imprese coinvolte nel caso in argomento, hanno infatti rammentato i giudici di secondo grado, è stato correttamente allegato dall’ufficio all’avviso di accertamento impugnato e non è stato contestato dalla contribuente con la conseguenza che esso va a costituire il pilastro sul quale si fonda l’atto impositivo “essendo del tutto evidente che tali società, se non avevano neppure una consistenza spaziale e materiale, non potevano di certo avere svolto le prestazioni contrattuali cui afferiscono le fatture che hanno generato i ricavi sottratti a tassazione”.
Quanto alla motivazione della sentenza di primo grado, la Corte di giustizia tributaria d’appello ha chiarito come la motivazione della sentenza ben può consistere anche in un mero richiamo all’apparato argomentativo di altro provvedimento noto alla parte processuale, a nulla rilevando il fatto che le decisioni cui il primo giudice si è riferito non siano ancora divenute definitive, poiché ciò che rileva è il fatto che quelle decisioni si fondano sull’assunto della falsità delle fatture emesse, per le quali il rappresentante delle società fittizie è stato condannato in modo definitivo proprio per il reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 8 del Dlgs n. 10/1974).
Ancora, i giudici tributari di secondo grado hanno chiarito come non può assumere alcuna valenza probatoria nel processo tributario l’assoluzione, avvenuta in sede penale, per il rappresentante legale della società contribuente dal reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Tale assoluzione, infatti, hanno rimarcato i magistrati, deriva dalla mera insufficienza della prova costituita dalle dichiarazioni di una parte, le quali, mentre nel processo penale possono essere valorizzate solo se riscontrate (ex articolo 192 del codice di procedura penale), nel processo tributario possono essere apprezzate unitamente con gli altri indizi fino a integrare una prova sufficiente per l’emissione dell’atto accertativo.
Sarebbe stato preciso onere della società contribuente contestare efficacemente, mediante allegazione di prove concrete, l’apparato probatorio costruito dal Fisco, cosa che però non è avvenuta.
Concludendo, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado delle Marche, pronunciandosi definitivamente sulla questione e dando ragione all’Amministrazione finanziaria, ha statuito che l’appello della società, incentrato solo sulla richiesta di far valere nel processo tributario il giudicato penale di assoluzione, non può trovare, per le ragioni sopra esposte, accoglimento.