Roma – Pubblichiamo questa informativa riguardante una vicenda processuale che scaturisce in una pronuncia della Corte di Cassazione. Il tema è di grande interesse e riguarda il processo tributario in fattispecie nel contesto dei ricavi conseguiti sulle vendite immobiliari.
Il caso in esame: Il giudice d’appello, dopo aver ritenuto che l’accertamento è fondato su presunzioni idonee a dimostrare l’esistenza di ricavi maggiori di quelli dichiarati, può rideterminare quanto dovuto al fisco. Inoltre è legittimo l’accertamento che si basi non solo su valori Omi, ma anche su altri elementi idonei a dimostrare l’antieconomicità delle vendite immobiliari. Una volta che il fisco ha contestato l’antieconomicità dell’operazione anche attraverso altri elementi spetta al contribuente fornire elementi contrari, in mancanza dei quali è legittimo l’accertamento
È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 27496 del 2 dicembre 2020, ha respinto sul punto il ricorso della società di costruzioni che aveva impugnato l’accertamento del maggior valore degli appartamenti venduti.
La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
Confermata dunque la pronuncia della Ctr Veneto che aveva rideterminato la pretesa dell’Ufficio come da consulenza tecnica disposta.
Nel rigettare il ricorso della contribuente la Cassazione ricorda innanzitutto che in tema di accertamento del maggior corrispettivo nella vendita di un immobile, l’avviso non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita e il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni Omi, ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti.
Una volta che il fisco ha contestato l’antieconomicità dell’operazione spetta al contribuente fornire elementi contrari, in mancanza dei quali scatta l’accertamento (Cassazione, sentenza n. 26485/2016, n. 14388/2017, n. 15321/2019 e n. 30364/2019).
Nel caso di specie i maggiori ricavi erano desunti non solo dai valori Omi ma anche dall’antieconomica gestione dei cantieri, incoerente valutazione delle rimanenze, dal rilevante scostamento tra somme prese a mutuo e corrispettivi dichiarati. Tali elementi erano stati valutati sia singolarmente che complessivamente come idonei a fondare l’accertamento. Tra l’altro la Cassazione ha già considerato sufficiente sia la sproporzione tra ricavi e costi relativi agli immobili venduti (cfr Cassazione n. 4410/2020) sia l’incongruenza tra i corrispettivi fatturati e gli importi dei mutui contratti dagli acquirenti (cfr Cassazione n. 7819/2019).
Respinta anche la censura relativa a una presunta contraddittoria motivazione della pronuncia d’appello che dapprima avrebbe affermato la legittimità dell’operato dell’Ufficio pero poi ridurne la ripresa in conformità alla consulenza tecnica espletata nel corso del giudizio.
Secondo la Cassazione il motivo è innanzitutto inammissibile dovendo riguardare un fatto controverso e decisivo per il giudizio mentre, nella specie, la censura sembra più riguardare i poteri istruttori e decisori del giudice di merito.
Lo stesso è altresì infondato.
La Cassazione ha motivato la decisione spiegando che il processo tributario non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento”, ma tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, che dell’accertamento dell’ufficio. Di conseguenza, ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento non per motivi formali (ossia per vizi di forma talmente gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi, e precludere l’esame del merito del rapporto tributario), ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte ovvero entro i limiti posti da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro lato, sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’Ufficio.
Strumentale a tale modo di concepire il giudizio tributario è la facoltà concessa al giudice di disporre consulenza tecnica, anche in sede di appello (cfr Cassazione n. 22535/2012).
Nel caso di specie, in conformità a tali principi, il giudice di appello, dopo aver ritenuto che l’accertamento impugnato fosse fondato su presunzioni semplici idonee a dimostrare l’an debeatur in ordine all’esistenza di ricavi maggiori di quelli dichiarati dalla contribuente, ne ha determinato il quantum, in misura inferiore a quella pretesa dall’Amministrazione, sulla base della valutazione tecnica rimessa, nel contraddittorio processuale, ad un consulente tecnico d’ufficio. Non vi è quindi la pretesa contraddizione logica nell’affermazione che l’Amministrazione ha provato il credito erariale, ma in misura inferiore a quella di cui all’atto impositivo
Ulteriori osservazioni
Nel processo tributario la disposizione che si occupa della consulenza tecnica d’ufficio è contenuta nell’articolo 7, comma 2, del Dlgs n. 546/1992, ai sensi del quale “Le commissioni tributarie, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità possono richiedere …ovvero disporre consulenza tecnica”. Per gli aspetti processuali occorre invece rifarsi, in quanto compatibili, alle disposizioni del codice di procedura civile in virtù del richiamo operato dall’articolo 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992.
La consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo di prova bensì uno strumento di ausilio alla formazione del patrimonio conoscitivo su cui può basarsi la decisione del giudice.
I requisiti sostanziali per il ricorso a tale strumento sono più stringenti rispetto a quelli previsti dal codice di rito civile il cui articolo 61, più genericamente, consente al giudice di avvalersi di uno o più consulenti “quando è necessario”.
Tale differenza trova la sua ratio nella considerazione che il giudice tributario rispetto a quello civile presenta i caratteri del giudice specializzato chiamato a risolvere questioni rientranti in una materia specialistica. In altri termini il giudice tributario possiede un bagaglio di conoscenze tali da dover limitare l’utilizzo della figura del consulente a casi sporadici, caratterizzati dalla risoluzione di questioni tecniche di particolare complessità. Se ne desume che, diversamente dal rito civile, proprio in virtù di tali conoscenze specialistiche, normalmente non sarebbe consentito l’impiego della consulenza tecnica neppure per esaminare registri e documenti contabili, che rappresentano una costante delle liti tributarie.
Tali considerazioni sono state avallate dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui “il livello minimo di professionalità richiesta ad un magistrato include necessariamente e precipuamente la consapevolezza della preclusione ad avvalersi dell’opera di un consulente tecnico per risolvere questioni di diritto, ancorché complesse e concernenti settori specialistici delle discipline giuridiche” (Cassazione sezioni unite n. 11037/2008).