Roma – Tiene banco, da alcuni anni, la questione sulla prescrizione delle tasse erariali da pagare ogni anno. Si tratta delle imposte Irpef, Iva, Irap e Ires. Si è ritenuto a lungo che queste tre incombenze fiscali di cui il creditore è lo Stato, così come le relative cartelle esattoriali emesse in caso di omesso pagamento, si prescriverebbero in 10 anni applicando quindi il termine di prescrizione ordinaria. Più di un giudice, però, ha ritenuto in passato che la corretta prescrizione sarebbe sempre di cinque anni. Un dibattito che ha trovato orientamenti giurisprudenziali e dottrinali contrastanti.
Come mai questo dibattito e su cosa si fonda il contrasto in giurisprudenza? La Commissione Tributaria Provinciale di Milano – una delle più influenti d’Italia – ha aderito all’interpretazione più favorevole al contribuente. È il caso di illustrare i termini della questione, spiegando cioè quando vanno in prescrizione Irpef, Iva, Irap e Ires nonché cosa bisogna fare nel caso in cui si riceva una cartella di pagamento per una di tali imposte.
Quando vanno in prescrizione le imposte?
La regola generale vuole che tutti i debiti si prescrivono sempre in 10 anni, salvo che la legge disponga diversamente. Esiste poi un’eccezione prevista da una norma del Codice civile secondo cui tutti i debiti da pagare tutti gli anni o per frazioni più brevi dell’anno (ad esempio una volta ogni sei mesi, ogni tre mesi ,ecc.) cadono in prescrizione in cinque anni.
Una prima ed importante risoluzione alla problematica dinanzi illustrata è pervenuta dalle Sezioni Unite, con la nota pronuncia n. 23397/2016, per mezzo della quale il Massimo Consesso ha avuto modo di sigillare la teoria che avallerebbe il termine quinquennale, precisando che tutte le pretese della Pubblica Amministrazione (Agenzia delle Entrate, Inps, Inail, ecc.) si prescrivono nel termine “breve” di cinque anni, eccetto i casi in cui la sussistenza del credito non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato o a mezzo di decreto ingiuntivo.
Per le imposte degli enti locali (Regioni, Province, Comuni) non v’è stato alcun dubbio nel ritenere che la prescrizione sia sempre di cinque anni. Parliamo quindi di Imu, Tasi, Tari, ma anche delle multe stradali dovute al Comune e delle altre sanzioni amministrative. I cinque anni valgono anche per le relative cartelle esattoriali emesse nel caso di omesso versamento di tali importi.
Il dubbio si è, invece, posto per le imposte erariali, quelle cioè dovute allo Stato, come Irpef, Iva, Irap e Ires. In assenza di specifiche indicazioni da parte della legge, si è sempre pensato che la prescrizione fosse quella ordinaria di 10 anni.
Senonché, poco alla volta, si è aperto un altro filone secondo cui la prescrizione di Irpef, Iva, Irap e Ires sarebbe sempre di cinque anni. E così anche per le relative cartelle esattoriali.
Irpef, Iva, Irap e Ires: prescrizione in cinque anni
La ragione di questa interpretazione più favorevole al contribuente sta nel fatto che anche tali imposte vanno pagate tutti gli anni. Nessuno dubita infatti che chi produce reddito debba liquidare l’imposta all’Agenzia delle Entrate secondo le scadenze imposte dalla legge. Stesso discorso vale per le imposte Iva, Ires ed Irap.
Proprio sulla base di tale argomentazione, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano si è espressa a favore del cittadino, ritenendo di doversi applicare, per tali imposte erariali da versare annualmente, la prescrizione di cinque anni.
A far eco ai Decidenti di legittimità, sono intervenuti negli ultimi tempi i Giudici delle Commissioni Tributarie di diversi capoluoghi d’Italia, mentre altri hanno sostenuto che il ragionamento non sarebbe corretto.
Se è corretto dire che Iva, Irpef, Irap e Ires vanno corrisposte una volta all’anno, è altrettanto vero però che il presupposto di imposta – ossia il reddito su cui applicare l’aliquota – varia sempre a seconda dell’attività del contribuente. Ragion per cui ben potrebbe essere che, magari, un anno non si debba versare nulla allo Stato per mancato raggiungimento del limite minimo tassabile al netto delle detrazioni fiscali. Ecco perché dunque, secondo tale interpretazione, non avrebbe senso parlare di imposte sempre uguali ogni anno.